Cecilia Ravera Oneto, 
una pittrice fra glicini e ciminiere 
di Franco Ragazzi 
SilvanaEditoriale 2008 
pagina 2   
Cecilia declina la sua pittura verso un'espressione realista, comunque lontana, se non addirittura antitetica, dal realismo didascalico prossimo alla declinazione ideologica e alla retorica propagandistica che ha contribuito non poco a fare di una parte del realismo italiano del dopoguerra qualcosa di insopportabilmente "anti moderno". Talmente arretrato da essere condiviso sia dalla critica "militante" sia da quella conservatrice che, di fronte alle ricerche astratte, apprezzava il ritorno a un'arte che "nonostante il carattere di cartelloni illustrativi (...) segnava il ritorno ad un'arte comprensibile ed umana". (nota 9)  
 
La pittrice trova la sua originalità in un realismo lirico e romantico che le fa dipingere paesaggi dolcemente illanguiditi dalle nebbie e dalle tonalità pastello, e figure come Valerio , l'anziano padre navigante protagonista di Nostalgia di marinaio , esposto al IV Premio Vado Ligure del 1954, o le donne chine a raccogliere le olive di Novembre tra gli ulivi (circa 19539, o ancora la madre che posa in camice bianco e alambicchi per Laboratorio chimico inviato a Suzzara al Premio Lavoro e lavoratori nell'arte nel 1954. Cecilia dichiara il suo impegno sociale senza dipingere occupazioni di terre, caduti sul lavoro o lotte operaie (temi che saranno presenti in alcune tele degli anni sessanta, maturate nel clima del '68, a cui, negli anni settanta seguiranno opere per il Vietnam, la Resistenza, il Cile, l'assassinio di Guido Rossa, il dramma del Belice dove l'artista si reca a dipingere subito dopo il terremoto), ma manifesta la sua vicinanza alla condizione operaia dipingendo i luoghi nei quali questa condizione vive, lavora e si organizza.  
 
Con lo sguardo di oggi vediamo queste tele come uno straordinario campionario di "archeologia industriale", materia peraltro destinata a diventare disciplina di studio alcuni decenni dopo, sebbene quando quelle fabbriche furono dipinte fossero ben vive, pulsanti di lavoro, energia, fatica, di una umanità congeniale alla sensibilità dell'artista. "Conl'espandersi degli insediamenti industriali - racconta la pittrice - vedevo trasformare sotto i miei occhi il territorio ligure, stretto tra il mare e le colline, e non mi volevo lasciar sfuggire l'emozione che mi suscitava.  
Ma l'industria significava anche comunità di persone, solidarietà. Quando gli operai mi vedevano arrivare con i miei attrezzi per dipingere questi mutamenti mi aiutavano, mi facevano sentire a mio agio, spesso mi fermavano a raccontare i loro problemi di lavoro e di vita, molti andavano alle scuole serali per migliorare la loro condizione, c'era chi mi invitava a casa per farmi vedere i disegni dei bambini, qualcuno si divertiva a dipingere; oltre alla potenza degli impianti scoprivo l'umanità vera, tornavo a casa appagata di tanta ricchezza umana." (nota 10)  
Le prime tele dedicate al paesaggio industriale sono del 1957 e anche nei titoli risentono della sua concezione sentimentale oltre che ideale. Gli opifici e gli impianti tecnici sono i Nuovi santuari della società aindustriale , dei quali paventa la presenza minacciosa come nei serbatoi della Raffineria Garrone che stanno "invadendo" la Val Polcevera. Sul retro di Nuovi Santuari, che titola anche Il santuario del lavoro , scrive un pensiero che ha la levità di una lirica: "Tu uomo, elevi al cielo / gli orgogliosi santuari del lavoro / e distruggi pensando di creare".  
 
 
L'artista è mossa da uno spirito "romantico" che le farà descrivere questa fase della sua pittura come una passione, "un amore nuovo per le raffinerie che sostituiva quello per gli ulivi teneri della Riviera". Cecilia vede nel territorio di San Quirico un "misto tra romantica vallata e aggressione industriale", fra "serbatoi in mezzo ad abeti e vecchi ciliegi, fumi e aromi velenosi". Un piccolo abbandono nostalgico che si corregge subito dopo: "Poi passai all'Italsider; fu un crescendo, il concretizzarsi di uno stile, una consapevolezza maggiore anche sociale". (nota 11)  
seguendo modalità non convenzionali, Cecilia esplora diverse realtà del mondo del lavoro, da quella operaia delle raffinerie , dei grandi complessi metallurgici, del porto, per giungere a quella della ricerca scientifica e della medicina. Fra queste fasi sono particolarmente significativi per originalità e coerenza di ricerca le opere degli anni sessanta e settanta nate prima all' Italsider di Cornigliano, poi nei bacini del porto nuovo di Genova. Gradatamente scompare il languore romantico, e gli impianti industriali da soggetti di una pittura sostanzialmente di paesaggio diventano tema centrale di un pensiero artistico che eleva la macchina, l'apparecchiatura tecnica, la struttura meccanica a protagonista assoluta.  
Per comprendere il carattere innovativo della pittura di Cecilia vale quanto ha osservato Rossana Bossaglia quando, presentando una mostra dell'artista dedicata pressochè interamente al tema, la definiva "tra i più significativi rappresentanti" di quella particolare iconografia, sottolineando che "il paesaggio industriale, visto attarverso gli occhi dell'artista, insieme intenso e pittoresco, prepotente e suggestivo, ci offre una chiave di lettura positiva, ci racconta che il mondo cambia"; e soffermandosi sulla serie di immagini dell'Italsider, giunse a considerarle "una speciale e specifica sequenza, affascinante nel dialogo tra il mare come elemento naturale e l'artificio dell'intervento umano". (nota 12)  
i primi paesaggi industriali sono del 1957, ma è solo nel 1963, quando abbiamo incontrato la pittrice a novanta metri d'altezza sul gasometro dell'Italsider, che Cecilia li espone. La mostra si tiene a Genova, al Centro Artistico della gioventù italiana, presentata ancora da Elio Balestreri che, nel breve testo in catalogo , li saluta come un "trionfo del progresso" (nota 13) , e recensendo l'evento evidenzia come "l'occhio che delinea la fabbrica non è disumanizzante, ma curioso e partecipe dell'energia che vi si prodiga, la materia cromatica corposa genera emozione, la presa della realtà è comunque diretta". (nota 14)  
Concetti ripresi due anni dopo dallo stesso critico a proposito di una personale di Cecilia alla Galleria Rotta. "La Ravera è andata acquistando un'impronta artistica più matura, fondamentalmente umana, inerente al suo nuovo stato d'animo. Le sue inquadrature industriali sono infatti coerenti alla sua vita psicologica, al suo dinamismo, alla sua ansia di partecipare con slancio e dedizione alla vita di oggi vista nei diversi aspetti di operosità, di travaglio e anche di dramma.  
 
 
E' un tema che, innanzi tutto, esalta il progresso, ma come forza costruttiva, come problema che sfocia nella suggestione di un mondo da cui traspare l'intima esistenza della vita dell'uomo. Gli altiforni dalle fiammeggianti ciminiere con lo sfondo delle colline e dei monti, i complessi industriali realizzati con potenza strutturale sono visioni espressionistiche risolte con una rigorosità di intendimenti ben studiati e precisi. (nota 15)  
Il tema ha fortuna presso il pubblico (l'artista ricorderà "per la prima volta vendetti tanto" e in buona parte della critica. Cecilia Ravera Oneto presenta le sue fabbriche al Premio Suzzara e in una personale alla Galleria Vinciana di Milano, presentata da Mario Monteverdi, dove i suoi quadri sono notati da Aureli Natali: "Il soggetto delle tele che Cecilia Ravera Oneto espone (...) è davvero insolito per una donna. ovunque dominano fabbriche e porti irti di fumaioli, di gru, di volumi disarticolati, ammucchiati su brevi spazi. Sono le fabbriche della Liguria, il volto di un mondo nuovo che cancella a poco a poco le sembianze di quella antica terra. una realtà dura di cui l'artista vuole ad ogni costo cogliere la difficile poesia, e sotto il suo pennello chiaro e sereno le fabbriche e i cantieri si umanizzano, assumono una dimensione lirica quale difficilmente riusciranno a scoprire. (nota 16)  
Balestreri e Natali colgono l'umanizzazione degli stabilimenti industriali e quest'ultimo si mostra sorpreso che tali soggetti nascano da una donna, dando la stura ad un autentico luogo comune su Cecilia Ravera Oneto destinato a durare per tutta la sua esistenza, quello di una pittrice che si interessa a temi e dipinge con la forza propria di un uomo. mario Monteverdi, nella citata presentazione, scrive che Cecilia, una volta intuita "una realtà, - meglio, una verità- in un paesaggio, in un'officina, in un angolo marino, quella persegue senz' indugiare più del necessario sui valori decorativi, senza indulgere verso ciò che, di solito, costituisce il repertorio delle pittrici. Al contrario , la nostra artista, messi da parte i fiorellini o i soavi dirupi, dolcealberati, vi affronta le officine, i cantieri, gli altiforni con l'autorità e la disinvoltura di chi potrebbe, all'occorrenza, dare una mano a spingere un carrello ricolmo di lamiere d'acciaio". Renato Cenni, commentando una tela di Cecilia esposta nel 1969, scriverà: "ma su tutti domina Tensione , un olio di grande formato risolto con bella franchezza, ricco di colore e di forza espressiva. Non avevo mai veduto nulla di questo pittore: si chiama C. Ravera Oneto; è una donna. Quasi quasi mi dispiace". (nota 17)